Google Panda tutela Youtube, e il caso “not provided” di Google Analytics.
Sono ormai diversi anni che Google sta combattendo una condivisibile battaglia contro lo spam, la scarsa qualità dei contenuti e il SEO black hat, ossia l’attività poco lecita e trasparente di ottimizzazione delle pagine per i motori di ricerca attraverso meccanismi quali il keyword stuffing e il testo nascosto. Le centinaia di aggiornamenti dell’algoritmo che assegna un valore alla rilevanza delle pagine, regolandone così il posizionamento, hanno causato negli ultimi anni oscillazioni e bruschi cali nelle SERP, oltre che malumori in chi si occupa della realizzazione e sviluppo dei siti e frequenti malesseri al fegato dei SEO di tutto il mondo.
È giusto o sbagliato, da parte di Google, operare questo tipo di correzioni? Giustissimo, se consideriamo che al primo posto, nell’interesse di chi lavora agli algoritmi e agli update del motore di ricerca ci deve essere la user experience: devono essere premiati i siti snelli, veloci, pratici e funzionali, ricchi di informazioni e contenuti.
Usabilità e integrazione con i social network contribuiscono a rendere l’esperienza dell’utente migliore, chiariscono l’obiettivo e il target del sito e restituiscono valori affidabili sul grado di interazione e di partecipazione degli utenti al processo comunicativo.
In un mondo perfetto l’attività SEO dovrebbe favorire l’usabilità e rendere ancora più trasparente l’obiettivo comunicativo e il tipo di sito di fronte al quale ci troviamo. Purtroppo c’è chi utilizza tecniche poco lecite per migliorare il posizionamento di siti di bassa qualità e col solo fine di monetizzare le visite attraverso la pubblicità.
Il Panda Update è il nome dato a una serie di aggiornamenti dell’algoritmo del motore di Google, rilasciato a partire dal febbraio del 2011, allo scopo di:
- penalizzare i siti con contenuto di scarsa qualità;
- limitare in misura maggiore l’importanza dell’ormai sorpassato concetto di PageRank, abbattendo il peso dei link provenienti da link farm;
- sconfiggere la piaga della presenza di contenuto duplicato;
- determinare l’0biettivo dei siti attraverso l’analisi dei contenuti, punendo l’eccesso di pubblicità, banner e ads.
“Tutto molto bello”, mi verrebbe da dire citando un’espressione sempre più inflazionata. E non ci sarebbe nulla da eccepire, se non fosse per ciò che ho concluso analizzando una recente ricerca a proposito dei siti che hanno perso o guadagnato accessi dopo l’introduzione (graduale) del famigerato e temuto Panda.
Tra i siti che hanno avuto un considerevole aumento di traffico (oltre il 90% di utenti settimanali in più, secondo la fonte) annoveriamo YouTube. Nulla di male, nulla in contrario: YouTube, come tutti sappiamo, è un fantastico sito che pubblica contenuto video generato dagli utenti. Non ci resta che aprirlo nel nostro browser, così, per curiosità…
Amara sorpresa: la homepage di Youtube è letteralmente invasa da pubblicità, che compromette seriamente la user experience. Allora com’è possibile giustificare l’aumento dei dati di accesso in seguito a Google Panda? L’obiettivo dell’aggiornamento dell’algoritmo non era proprio quello di penalizzare siti invasi dalla pubblicità?
Spiace rovinare la poesia ed essere materialisti, ma YouTube è di Google, e Google non è un ente no profit.
Dove sta la coerenza in tutto questo? Semplicemente sta molto lontana da Mountain View, e il controverso comportamento dei siti proprietà di Google nel post-Panda non fa che confermarlo.
L’esempio non vi basta? Se conoscete Google Analytics, l’applicazione web per il monitoraggio degli accessi e delle sorgenti di accesso ai vostri siti, vi sarete accorti che da un mese a questa parte i dati sulle parole chiave di accesso sono inquinati. La figura sottostante vi mostra una schermata di Analytics che illustra il numero di accessi per ciascuna keyword inserita nel motore di ricerca.
Vedete che una delle voci è segnalata come (not provided). Perché?
Adducendo presunte misure volte alla salvaguardia della privacy, Google ha deciso che le ricerche fatte da chi ha effettuato il login a Google (e Gmail, Google+,…) non passeranno più i dati della chiave di ricerca ad Analytics, che le mostrerà nascoste da un anonimo (not provided).
Cosa non si fa per la privacy? E quando la motivazione è sensata e sensibile è facile non avere nulla da eccepire.
Perfetto. Allora, signor Google, mi spiega per quale motivo tale dato non viene nascosto quando la ricerca diventa canale di accesso a una campagna pagata attraverso Google AdWords?
Quando decidiamo di investire in una campagna, infatti, e le nostre pagine vengono visitate attraverso i risultati sponsorizzati da Google nella SERP (quelli con l’impercettibile sfondo rosino, per intenderci), il (not provided) magicamente scompare e anche le chiavi di ricerca degli utenti loggati compaiono tra i dati di Analytics.
L’illusione che milioni di utenti web hanno avuto (e che la maggior parte di loro ancora ha) è che Google sia una sorta di benefattore, un ente no-profit in continua lotta per il miglioramento della qualità nel web. Peccato che ci si dimentichi, e perdonatemi il più bieco e triste dei “tengo familia”, che Google è un’impresa che ha un fatturato, ha investitori e ha dipendenti da mantenere.
La domanda con cui vi lascio e che mi tormenterà ancora per molto tempo, se non mi aiuterete a trovare una risposta che non profumi di dollari, è: cara Google, perché stai diventando ciò che cerchi di combattere?